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“L’antisemitismo esiste ancora”. Tatiana Bucci racconta la sua Shoah

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In occasione degli 80 anni dal rastrellamento del ghetto di Roma parla Tatiana Bucci. Fu deportata da Fiume verso Birkenau il 18 marzo 1944
Paolo Rodari

Paolo Rodari

Sono Paolo Rodari, scrittore e giornalista. Mi puoi scrivere inviando una mail a paolo@paolorodari.it

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Racconta Tatiana Bucci: “Il 16 ottobre del ’43 eravamo ancora a Fiume. Nostra madre era ebrea. Cercava di proteggerci da tutto quanto stava accadendo intorno a noi. In famiglia in tutto eravamo in tredici ebrei. Alla fine della guerra ci salvammo soltanto in quattro. Ricordo i bombardamenti, le fughe nei rifugi. Ma anche le gite al mare, nonostante la guerra tutt’intorno.

Poi arrivò il 28 marzo del ’44. Ci deportarono in otto a Birkenau. Gli altri vennero successivamente deportati a Bergen Belsen. Vennero i nazisti, ma anche due fascisti. È doveroso ricordarlo, perché è storia. Eravamo alleati e ci deportarono. Dovremmo imparare da quanto accaduto, invece troppo spesso non accade. L’antisemitismo è vivo ancora oggi, purtroppo, e il conflitto in Israele con bambini innocenti che perdono la vita è qui ancora a dircelo”.

Il contesto

Tatiana Bucci vive a Bruxelles. In questi giorni è a Roma per partecipare alla marcia silenziosa per ricordare la deportazione romana avvenuta ottant’anni fa, il 16 ottobre del 1943, dal ghetto. Tatiana Bucci fu deportata poco dopo, da Fiume, assieme ai suoi famigliari, fra cui la sorella Andra, il cugino Sergio e le rispettive madri. Fu internata nella “baracca dei gemelli” perché il dottor Joseph Mengele notò che assomigliava alla sorella e le credeva gemelle. Qui la mia intevista per la radiotelevisione svizzera.

L’intervista a Tatiana Bucci

Tatiana Bucci, come sopravvisse?

“Arrivati al campo ci separarono dalle nostre madri. La capa della nostra baracca, che chiamavamo “blokowa”, forse perché ci aveva preso in simpatia ci disse che quando i nazisti ci avrebbero chiesto se avessimo voluto raggiungere i nostri genitori non avremmo dovuto rispondere ma rimanere ferme. Nostro cugino Sergio, purtroppo, non ci ascoltò, fece un paso in avanti e per lui fu la fine. Noi ci salvammo. Riuscimmo poi a resistere fino alla liberazione”.

Quanti anni aveva quando arrivò a Birkenau?

“Appena sei. Non ricordo tutto. Nel tempo ho poi ricostruito anche grazie al fatto che ho ritrovato mia madre viva per l’intercessione della Croce Rossa”.

Quando sta accadendo in Israele quali sentimenti le suscita?

“La morte dei bambini innocenti mi riporta alla memoria quanto avvenne allora. E ogni volta fatico anche a parlarne. Mio cugino venne deportato in un campo di Neuengammead, ad Amburgo, dove svolgevano alcuni esperimenti sulle ghiandole linfatiche e contro la tubercolosi. Era insieme ad altri diciannove bambini. Una volta effettuati gli esperimenti i bambini venivano sedati con la morfina e fatti morire. Coloro che non morivano, venivano appesi ai ganci dei macellai e fatti morire così. Vennero uccisi il 20 aprile 1945 a guerra quasi finita. Erano innocenti come lo sono i bambini morti in queste ore in Israele e come lo sono i bambini palestinesi che muoiono senza avere colpe. La storia si ripete e sembra che la lezione non venga mai appresa”.

L’antisemitismo è vivo ancora oggi?

“Purtroppo sì. Per Hamas, Israele non ha diritto di esistere. È un atteggiamento antisemita e nazista. Per colpa di alcuni fondamentalisti la popolazione innocente muore. Per questo parlo ancora, per questo cercherò anche io di far sì che a Trieste il nostro binario, da dove partivano i convogli per Auschwitz-Birkenau, diventi monumento nazionale come il binario 21 a Milano. La memoria non deve morire.”

Il 16 ottobre 1943 dice anche del silenzio di papa Pio XII. Avrebbe potuto fare di più per gli ebrei?

“Credo proprio di sì. Anche se gli archivi devono ancora essere studiati a fondo, credo che non abbia fatto tutto quello che avrebbe dovuto fare”.

Pensa che testimoniare possa aiutare?

“È l’unica cosa che possiamo fare. Eravamo duecentomila bambini sotto i dieci anni ad essere stati deportati. Siamo tornati soltanto in una cinquantina. Lo dobbiamo a chi non ce l’ha fatta”.

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